25/07/16

Interruzione estiva


Cari Amici lettori e collaboratori,
 
il «Corriere metapolitico» va in vacanza e tornerà a settembre. Per tutto il periodo, la casella alafata@yahoo.com  rimarrà attiva e chi volesse può intervenire  e commentare i post di suo interesse.
Auguro a tutti buone vacanze estive, terroristi – reali o presunti tali - e psicopatici permettendo.

A.L.F.

“Ma quando? Presto? Questo non si deve chiedere. Solo: pazienza, verrà, deve venire il sacro tempo della pace perpetua, in cui la nuova Gerusalemme sarà la capitale del mondo; e fino ad allora siate sereni e coraggiosi nelle avversità del tempo, compagni della mia fede, annunciate in parole e azioni il Vangelo divino e restate fedeli alla fede vera, infinita, fino alla morte.”

Novalis,  La Cristianità o Europa

17/07/16

Il nuovo libro di Antonello Colimberti: "Metafisica Sperimentale delle Arti"

Descrizione

Un excursus sulla metafisica nell’Arte a partire dall’esperienza musicale, che tenta di rispondere alla domanda se si possono proporre forme nuove che incarnino principi immutabili.
Questo è il cammino che si propone Antonello Colimberti, antropologo del suono e del gesto, in un incontro fra tradizioni arcaiche e forme di sperimentazione contemporanea.


Profilo dell’Autore

Nato a L’Aquila nel 1962, compie i propri studi musicali al Conservatorio di Musica “Alfredo Casella”, diplomandosi in pianoforte con Sergio Calligaris e seguendo i corsi di musica elettronica di Michelangelo Lupone. A seguito di un carteggio iniziato qualche anno prima, nel 1986 segue a Firenze un corso di musica ambientale con Albert Mayr, con il quale inizia una lunga collaborazione, che darà vita al volume L’ascolto del tempo. Musiche inudibili e ambiente ritmico, Mpx2 Editore, Firenze 1995.
Negli stessi anni segue i corsi di canto armonico di Roberto Laneri, divenendo performer e insegnante di questa tecnica vocale.
Compie studi universitari, conseguendo una prima laurea al DAMS di Bologna in semiologia della musica (relatore Gino Stefani), discutendo una tesi su una ricerca interdisciplinare sui codici di rappresentazione temporale, condotta in quegli anni con una équipe diretta da Albert Mayr. In seguito consegue una seconda laurea alla Facoltà di Magistero di L’Aquila in antropologia culturale (relatore Valerio Petrarca), discutendo una tesi sulla figura dello sciamano. Sulla scia di quest’ultimo lavoro pubblica, sotto la sua curatela, il volume Musiche e Sciamani (con CD allegato), Textus Editore, L’Aquila 2000, ed inizia una lunga collaborazione con la SISSC (Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza), entrando anche a far parte del suo Consiglio Direttivo.
Nel 2001 consegue un dottorato di ricerca presso l’Università degli Studi di Salerno in storia del teatro moderno e contemporaneo (relatore Lorenzo Mango), discutendo una tesi sul mimodramma di Marcel Jousse. Sulla scia di quest’ultimo lavoro inizia a curare una serie di volumi su e di Marcel Jousse: dapprima Marcel Jousse: un'estetica fisiologica, numero monografico della rivista di studi filosofici "Il cannocchiale", n.1-3, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2005, poi Marcel Jousse, La sapienza analfabeta del bambino. Introduzione alla mimo pedagogia, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2011, infine Marcel Jousse, Il contadino come maestro. Lezioni alla Sorbona, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2012.
Fra antropologia del suono e antropologia del gesto sono la cura del volume Ecologia della musica. Saggi sul paesaggio sonoro, Donzelli Editore, Roma 2004, dove Marcel Jousse è presentato come un precursore dei soundscape studies e della musica ambientale, e la traduzione e cura di Jacques Viret, La musica occidentale e la tradizione. Metamorfosi dell’armonia, Simmetria, Roma 2012, dove è proposto un incontro fra filosofia perennialista e nuova musica. Infine, nel 2016 per la Luni Editrice, traduce e cura il testo di Jean Thamar (pseudonimo del diplomatico e orientalista svizzero Jacques-Albert Cuttat) La musica tradizionale.
Collaboratore alla cultura di vari periodici (Europa, Arel), testate radiofoniche (Radiotre) e televisive (RAI, TV2000), insegna presso l’Accademia di Belle Arti e presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Fides et Ratio” di L’Aquila.

antonello.colimberti@gmail.com
http://www.overtone.cc/profile/AntonelloColimberti

10/07/16

Benedetto XVI si racconta


Dobbiamo ringraziare Roberto Regoli, che, con il suo libro sul pontificato di Benedetto XVI Oltre la crisi della Chiesa (Lindau, pp. 512, e 29,50), ci porta a riflettere su una transizione decisiva del mondo cattolico nel nostro XXI secolo. Avverto un certo imbarazzo nel trattare di persone viventi, così vicine, talune presenti. A volte lo storico contemporaneo viene definito un «giornalista» (in modo talvolta poco lusinghiero), ma qui siamo davvero a una distanza ravvicinata dagli avvenimenti, dopo solo tre anni dalla conclusione del pontificato. Indubbiamente Regoli ha mostrato non solo equilibrio nel trattare il tema, ma anche molto coraggio.
È anche significativo che alcune carte siano disponibili grazie alla fuga di notizie dalle stanze vaticane (e questo rappresenta già un fatto) oppure dalle intercettazioni da fonte americana (anche se ho qualche dubbio sull’attendibilità di questo tipo di fonte). Ma, per il resto non vi è accesso alle fonti. E, d’altra parte, non oso auspicare l’apertura degli archivi del pontificato di Benedetto XVI, anche se resto convinto che la chiusura degli Archivi vaticani così a lungo sia un danno per l’indagine storica, ma anche un male per l’istituzione vaticana ed ecclesiale, su cui si fa storia — chiudendo le questioni — senza potersi documentare sui fondi archivistici principali. Ma va accettata questa realtà, si fa la storia dei pontificati dell’età contemporanea senza consultare gli Archivi vaticani. Con il suo volume Roberto Regoli va oltre questa problematica, scrivendo una storia così contemporanea da essere prossima: una storia del tempo presente.
Con il gesto delle sue dimissioni, Papa Ratzinger ha fatto un atto di grande umiltà. Molti l’hanno criticato e giudicato. Si è, in questo modo, sottoposto alla critica storica e della storiografia, oltre che alle opinioni e agli umori di tutti. Parlare di lui è trattare dei grandi capitoli del suo governo, del magistero (come fa molto bene Regoli), ma anche dell’uomo e del suo carattere. Per tradizione secolare, l’uomo-Papa si nasconde e si confonde nel pontificato, anche perché l’accesso alla persona del Papa è in qualche modo schermata e filtrata. Ci sono pagine su Pio XII in questo senso: i diplomatici accreditati in Vaticano notarono una sua trasformazione nel passaggio da segretario di Stato a Papa, come un’identificazione con il nuovo ruolo. Lo stesso Paolo VI, nonostante i riflettori mediatici fossero accesi su di lui, era per molti aspetti nascosto nel pontificato. Il distacco dalla propria terra d’origine e dal proprio ambiente era un esempio chiaro di questo nascondimento. Pio XII parlava agli italiani dicendo la «vostra patria» e Paolo VI mai tornò a Brescia. Il «noi» maiestatico simboleggiava proprio questo nascondimento della persona.
Con Wojtyla, possiamo dire che l’«io» entra apertamente nel pontificato: la terra natale, la personalità, il carattere, la storia giovanile… Cambia irreversibilmente il rapporto tra l’uomo e il papato, che non nasconde più o non protegge più la persona del Papa. Per questo si deve parlare del carattere di Ratzinger, così importante nelle sue scelte: della sua timidezza e riservatezza professorale. Direi che Benedetto è il primo Papa la cui umanità è stata sondata e giudicata senza alcuno schermo. Bisogna però notare che l’uomo Ratzinger, divenendo Papa, si è profondamente trasformato nel contatto con la gente — inusuale per lui —, divenendo affettuoso, popolare, paterno. Non è poco, anzi dice molto sul «senso del dovere» che ha accompagnato il suo governo. È quel senso di responsabilità che gli ha fatto accettare l’elezione a Papa, che non desiderava ma cui non si è sottratto. Infine, il Papa timido ha preso una decisione che richiedeva un coraggio inaudito, nonostante il parere contrario di chi veniva consultato: abdicare. Niente di più fermo —diceva una volta monsignor Gänswein — che la fermezza dei miti. Del resto è lo stesso coraggio del libro intervista con Seewald, il primo del genere per un Papa.
Vorrei però accennare all’elezione, da parte di un collegio di cardinali che in larga maggioranza non si era mai riunito per scegliere un Papa, a causa del lunghissimo pontificato di Wojtyla «Papa eterno», il Papa di sempre per molti di noi. Morto Giovanni Paolo II, i cardinali spaesati e incerti guardano al «fratello minore» dello scomparso, saldo nella dottrina, suo collaboratore, anche se non altrettanto carismatico… Fu un conclave molto preparato, più di quelli di Wojtyla, di Montini, di Roncalli o di Bergoglio. Da questa «preparazione» che ad alcuni parve eccessiva, nasce un grande equivoco sui motivi per cui fu eletto Joseph Ratzinger e sulla sua immagine come Pontefice.
Fu eletto da chi voleva assicurare una rilettura rigorosa del pontificato di Giovanni Paolo II che, con il suo stile carismatico e una spiritualità alla Soloviev (se così possiamo dire), lasciava spazio alla possibilità di essere interpretato in vari sensi, anche molto «aperti». Si pensi, ad esempio, allo «spirito di Assisi», l’esperienza voluta fortemente da Wojtyla, che aveva riunito, nel 1986, leader di tutte le religioni a pregare per la pace, in un dialogo interreligioso molto allargato, e che aveva lasciato perplesso il teologo Ratzinger.
Tra i grandi elettori di Benedetto XVI, bisogna fare il nome di López Trujillo, che fu tra i principali organizzatori della maggioranza al conclave, con un’intensa attività di colloqui. Il cardinale Martini disse di averlo sentito dire: «Non sai quanti pranzi e cene mi è costato questo Papa!». Niente di scandaloso (del resto, se i cardinali fossero andati al conclave in ordine sparso e senza un’idea, sarebbero stati ugualmente criticati). In ogni modo, la sistematica preparazione fu espressione della volontà di votare un Ratzinger come «carabiniere della Chiesa» — per usare l’espressione cara al cardinale Ottaviani, in altri tempi.
Questa era l’immagine di Benedetto XVI, che la stampa gli attribuiva: duro, illiberale, restauratore… Del resto, proprio insieme a López Trujillo, Ratzinger aveva fatto la battaglia contro la teologia della liberazione, per volontà di Giovanni Paolo II. È nato come «Papa della restaurazione». L’omelia del cardinale Ratzinger, nella Missa Pro Eligendo Romano Pontifice, del 18 aprile 2005, sembrava confermare questa qualificazione: la piccola barca della Chiesa naviga nel mare agitato del secolarismo e del relativismo, secondo una visione di sfida della modernità secolare che dura da due secoli.
L’«opposizione» viene chiamata «gruppo di San Gallo» (ma la recente biografia, con la regìa autobiografica del cardinale Daneels, mostra l’esiguità del gruppo episcopale di San Gallo) . In realtà il gruppo era coordinato dal cardinale Silvestrini, un grande diplomatico, che non partecipava al conclave per limiti di età e portava avanti la figura del cardinale Martini. E qui bisogna dire che i rapporti tra quest’ultimo e Ratzinger furono sempre di chiara divergenza sui grandi temi, ma anche di grande stima, come Ratzinger dichiara, nel libro in onore dell’arcivescovo di Milano: un rapporto tra professori dalle idee differenti, ma che si riconoscevano mutuamente un alto livello accademico e culturale .
Così non credo all’ipotesi di un trasferimento dei voti del gruppo di Silvestrini, che aveva scelto Martini, sul cardinale Bergoglio, bensì su Benedetto XVI (con qualche eccezione). Si dice che Martini, gesuita anche lui, non considerasse Bergoglio all’altezza del compito. Dal mito dei «voti di Martini» riversati su Bergoglio nasce l’idea che l’elezione di Francesco sarebbe in continuità con l’ipotesi di Martini, formulata nel 2005. Ma credo che senza Benedetto XVI e le dimissioni, non ci sarebbe stato Francesco. Su Ratzinger ci fu una larga convergenza di voti: Ruini lo appoggiò in seconda battuta, da esterno rispetto al gruppo di Trujillo, probabilmente perché considerato troppo italiano o politico. La candidatura alternativa, Bergoglio, era invece quella di un latinoamericano, che raccoglieva gli incerti e gli oppositori alla soluzione Ratzinger. Non si tratta di un blocco organizzato, come mostra bene Regoli.
Il grande equivoco dell’elezione di Benedetto XVI fu l’immagine dura del Papa eletto «carabiniere della Chiesa», presto smentita dai fatti. Giustamente Regoli scrive: «Vuol convincere e non imporre. Qui appare una caratteristica di Ratzinger, che è allo stesso tempo la forza e la debolezza del suo pontificato». La sua forza «gentile» è un magistero articolato e convincente, esaminato con attenzione nel volume di Regoli, ma che credo meriterà in futuro un ulteriore approfondimento anche di carattere teologico. Ratzinger si rivela l’uomo della grande tradizione, argomentato, chiaro, che vuol essere persuasivo. Per certi aspetti, non rispondente alla figura di chi deve mettere ordine nella Curia, secondo le aspirazioni di chi l’aveva eletto. Se c’era in lui un desiderio di ordine, si collocava sul piano ideale e teologico.
Lo «spirito di Assisi», caro a Giovanni Paolo II, come si è detto, non lo aveva mai convinto; Ratzinger non cambiò visione, ma non corresse l’eredità del suo predecessore. Fece alcuni interventi puntualizzanti, oltre a recarsi ad Assisi nel 2011 per celebrare i 25 anni dell’incontro dell’86, curando direttamente l’evento con un suo stile peculiare. Anche la riforma liturgica di Paolo VI non lo aveva proprio convinto, perché gli sembrava archiviare la tradizione con un rapido gesto di governo: provò a far evolvere la liturgia attraverso l’esempio di quella papale, proposta alla Chiesa, poi con il recupero della Messa di Pio V (Regoli si chiede se fu una concessione ai lefebvriani o un’intenzione personale di reintrodurla). Ma tutto questo in uno stile di riflessioni teologiche e con un metodo persuasivo, non imperativo.
Proprio la riforma liturgica era stata emblematica del modo di governare di Paolo VI, quello di un sovrano illuminato e riformatore, che non rinunciava al «potere del Papa», ma era consapevole delle opposizioni presenti: «Un Papa bolla e l’altro sbolla; bisogna far presto!», diceva a mons. Bugnini, segretario della commissione per la Liturgia del Vaticano II, su quale ora è uscita una biografia in francese. Montini aveva una chiara coscienza dell’opposizione interna di destra e di quella pubblica e chiassosa progressista.
Basterebbe rileggere la personale e indifesa lettera di Benedetto XVI ai vescovi dopo il caso Williamson (Richard Williamson, vescovo lefebvriano era stato riammesso nella Chiesa cattolica da Benedetto XVI nonostante le dichiarazioni negazioniste sulla Shoah). «Ma che è un Papa questo?», disse duro uno degli organizzatori della sua elezione, manifestando lo scarto tra i motivi per cui era stato eletto e le scelte da Papa. Ratzinger deluse chi lo aveva portato al soglio, perché — al di là di scelte puntuali — non si prestò all’opera di restaurazione nel senso richiesto. Non fu un «carabiniere».
Ratzinger nomina in prevalenza personale conservatore e sicuro (perché la chiarezza dottrinale gli sembra prioritaria), ma sceglie pure il cardinale Hummes, che si era dichiarato favorevole all’ordinazione dei viri probati prima di venire a dirigere la congregazione del clero. Lo chiama come collaboratore per riavvicinare la Chiesa brasiliana, che aveva vissuto una crisi nei rapporti con Roma all’epoca di Wojtyla.
Ratzinger non può essere considerato un tradizionalista, se si guarda allo spessore teologico e culturale del suo pensiero. Rende però scontenti anche i suoi sostenitori. Nel 1966, Joseph Ratzinger affermava acutamente: «Il Concilio segna il passaggio da un atteggiamento di conservazione a un atteggiamento missionario, ed il concetto conciliare contrario a “conservatore’”non è “progressista”, ma ”missionario”». Ma missionario in che mondo? E il Papa contemporaneo non deve essere il primo missionario?
Ratzinger guarda al secolarismo e all’Occidente, come scenario su cui agire per riaffermare un orizzonte cristiano, dove vuol quasi compiere l’operazione che portò Wojtyla a cambiare gli equilibri nell’Est Europa: vuole confrontarsi con l’illuminismo mediante le armi del dialogo. Si pone in continuità con la lettura di Giovanni Paolo II sul secolarismo, che Wojtyla conquistava anche con il suo carisma. Ratzinger può contare sulla simpatia dei russi ortodossi, che hanno grande stima del Papa della tradizione, e sappiamo della disponibilità del patriarca Kirill ad incontrarlo, se le dimissioni non avessero troncato la trattativa.
Questa visione del secolarismo è una chiave di lettura che Francesco non respinge del tutto, ma integra in una visione della modernità globale e liquida, in cui uomini e donne vivono da spaesati. Bergoglio sa che la cultura, cui Ratzinger si era rivolto, da grande, affrontandola in modo articolato — si pensi al discorso ai Bernardins a Parigi sulla scia dell’antico libro di Jean Leclerq, Cultura umanistica e desiderio di Dio — non muove i mondi, specie nelle dinamiche globali. Vangelo e carisma sono al centro del discorso di Francesco, e provocano un capovolgimento del modo con cui il papato affronta la modernità e il secolarismo: qui la novità.
Si dovrebbe approfondire l’idea di Chiesa come minoranza: la «minoranza creativa» ratzingeriana, quella del discorso di Subiaco, non è la stessa idea di minoranza del cardinale Danneels o di una minoranza-lobby per i valori non negoziabili. Ma non è nemmeno l’idea di Chiesa di popolo di Bergoglio. Come si realizza l’idea di Chiesa propria di Papa Benedetto?
Ma torniamo al tema centrale. Ratzinger comincia con il malinteso di Ratisbona, ricostruito molto lucidamente da Regoli: una dotta citazione diventa una bomba, con gravi conseguenze anche per la vita di alcuni cristiani in Oriente. Ma il Papa non è solo un intellettuale o un professore, che peso hanno le sue parole? L’attacco mediatico internazionale, violentissimo, saggiò la fragilità della posizione di Papa Ratzinger. Si può dire che, in varie riprese, a partire dal quel settembre 2006, non è stato più risparmiato: Benedetto XVI ha avuto costantemente contro la grande stampa internazionale, almeno fino alle sue dimissioni. Non credo alle congiure, ma c’è stata una dinamica di coincidenze e una sinergia che ha mostrato come, fino alle dimissioni, Ratzinger sia stato visto come chi ha «somatizzato» la crisi o l’agonia del cattolicesimo. Si poteva andare oltre la crisi? Sì, con il suo pensiero e la sua fede indicava una via per il futuro della Chiesa, ma la sua stessa figura diventa la crisi, tanto da pensare che il declino fosse insito in questa stagione della Chiesa.
A questo si aggiunge il problema del governo. Il Papa è scrupoloso e il suo senso del dovere fortissimo: basti pensare ai tanti viaggi nel mondo di un uomo che non amava viaggiare, fatti con attenzione e serietà. Ma la macchina curiale non funzionava molto. Paolo VI l’aveva architettata dopo il Concilio, rafforzando la Curia romana in un cattolicesimo più plurale, associando i vescovi, facendo della Segreteria di Stato il perno del governo con una scelta innovativa. Era la Segreteria da cui Montini veniva e che, da Papa, mise alle sue dirette dipendenze, essendo in pratica il segretario di Stato di se stesso, attraverso l’azione di un forte sostituto, monsignor Benelli. Paolo VI, come principe riformatore, voleva guidare la recezione conciliare attraverso i cambiamenti nella Curia.
Ma il sistema vaticano non funzionava alla perfezione. Le classi dirigenti, come quelle degli Stati europei, scendono di livello e le vocazioni scarseggiano. Anche il governo di Giovanni Paolo II fu molto criticato. Ma la realtà era che, con il suo carisma, Wojtyla suppliva ai problemi di governo. Benedetto XVI non è un carismatico e nella gestione della Curia non gli fu perdonato nulla, pur avendo all’attivo un’importante e dolorosa operazione di purificazione della Chiesa dagli scandali sessuali, che costituivano un grave problema ereditato dai pontificati precedenti. Del resto, come si vede anche oggi, la riforma del governo vaticano va avanti lentamente e non è facile tracciare un diverso profilo della Curia. Il governo è deficitario, ma il carisma lo compensa.
Un altro esempio è la diplomazia vaticana: gli Stati non l’apprezzano molto — come scrive Massimo Franco in La crisi dell’impero vaticano… — mentre in passato, all’epoca della guerra fredda era importante. Quando era guidata dal cardinale Casaroli o da monsignor Silvestrini, e da Papa Wojtyla con la sua geopolitica profetica, si erano coperti i vuoti di un sistema diplomatico che aveva varie mancanze. Si pensi all’irrisolta questione cinese (malgrado la bella lettera di Papa Benedetto ai vescovi della Cina) e la partenza di monsignor Parolin dalla Segreteria di Stato. Del resto Benedetto non riceve frequentemente i nunzi.
Ma non è solo la diplomazia ad avere difficoltà: il problema è la Segreteria di Stato e la criticata nomina del cardinale Bertone, non proveniente dalla diplomazia. Ma il problema non è solo il cardinale Bertone. Senza una Segreteria capace, la Curia montiniana non funziona. Regoli ricorda come gli amici di Ratzinger gli avessero chiesto di cambiare segretario di Stato con un passo collettivo, ma lui lo difese, coprendolo in questa e altre occasioni (ma il cardinale Casaroli affermava che è il segretario di Stato che ha il dovere di couvrir la couronne). Molti pensano che questa scelta sia stata dettata semplicemente dal desiderio di una continuità di lavoro con un collaboratore di vecchia data come il cardinale Bertone. Ma c’è di più.
Progressivamente Benedetto XVI, uomo di integrità cristallina, che tanto puntava sulla parola e sulla persuasione, sulla comunicazione colloquiale nella Chiesa, si rende conto che è soggetto a pressioni e forse non vuole essere ridotto a Papa-pensatore, che lascia il governo «personale» ad altri. Non è un caso che un’ultima inchiesta secretata — ma trasmessa al nuovo Papa Francesco in modo ben visibile — chiude il suo pontificato. Bertone gli era apparso un presidio per evitare di essere sopraffatto. Se così dev’essere, se mancano le forze, se si è già detto e insegnato tanto di quello che si poteva dire, perché restare? Qui la scelta delle dimissioni che illuminano la forza dell’uomo, l’accettazione dell’ignominia del giudizio di tutti, insomma la sua umiltà e il non tradire la sua missione.
Benedetto XVI non è l’immagine della crisi, della fine del pontificato di origine europea come sembra esaurito quello di nazionalità italiana (addirittura, nel conclave del 2013, l’ipotesi di un Papa italiano sembra a molti un incubo); non è una parentesi, anche se la sua figura non si impone. Basta rileggere oggi i suoi testi e ci si trova di fronte a un pensiero limpido e profondo, non unilaterale (basta menzionare la coraggiosa Esortazione apostolica sulla Parola di Dio). Un Padre della Chiesa, non un Papa missionario o carismatico. Oggi il Papa può essere tale?
L’uomo Ratzinger non ha voluto imporsi alla storia e alla Chiesa, ha percorso la via della mitezza, della fede e dell’intelligenza. Non emerge con evidenza e qui la storia avrà il compito di mettere in rilievo la sua figura. Un brano della Caritas in veritate mi è sembrato autobiografico, quando parla della «presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo e non noi. Noi gli presteremo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché egli ce ne dà le forze. Fare però quanto ci è possibile con la forza di cui disponiamo…».
È la visione di chi si è definito umile operaio della vigna del Signore. Ringraziamo Roberto Regoli che ha avuto il coraggio e l’intelligenza di cominciare a scrivere da storico su questa figura.

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